Recensione: I Figli del Tempo di Adrian Tchaikovsky

Quando l’equipaggio chiave della nave-arca Gilgamesh, dopo aver lasciato una Terra morente duemila anni prima, vede quel verde e rigoglioso pianeta, resta senza parole. Ma lo stupore dura poco. Da un satellite in rotazione intorno al pianeta infatti, gli viene intimato di girare i tacchi e andarsene, in quanto quel pianeta è un esperimento e non vi può interferire nessuno. Ma come ben sapete, l’umano è un essere tignoso e la Gilgamesh non ha nessuna intenzione di sprecare quell’occasione.

Questo romanzo ha tutto: navi spaziali, culture aliene, intelligenze artificiali un po’ fuori controllo. Analizza con precisione chirurgica gli errori fatti in passato e i motivi per i quali probabilmente verranno commessi anche in futuro. Ma mostra anche un nuovo tipo di società, sospinto da valori diversi dalla sola conquista di nuovi territori.

Finito pochi giorni fa, è forse il miglior romanzo di fantascienza che ho letto negli ultimi anni (ma non ho ancora letto The Expanse, quindi non venitemi a fare le pulci). Il talento di questo scrittore, di formazione zoologo e psicologo, è quello di metterti nelle scarpe della cultura aliena protagonista del libro, facendoti stare pure comod*. Ho traballato sul finale convinta che finisse malissimo, invece Tchaikowsky ha trovato la soluzione più soddisfacente possibile. Se non l’avete ancora fatto, correte a leggerlo.


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